Stepne

Maryna Vroda

Ucraina/Germania/Polonia/Slovacchia (114′)
LOCARNO 76: Pardo d’oro per la 
regia

 LOCARNO – Arriva dall’ Ucraina, da una regista quarantenne al suo esordio nel lungometraggio, Maryna Vroda (peraltro già nota per aver vinto una Palma d’oro a Cannes con il corto Cross-country nel 2013) la più bella sorpresa del settantaseiesimo Festival di Locarno.

Si dice Ucraina e subito il pensiero va alla guerra in corso, alla immane tragedia che da 18 mesi sconvolge il paese. E invece niente di tutto ciò. Stepne (Steppe)è un film sul passato, sulla memoria, sull’anima profonda e la storia di questa sfortunata nazione. Ed fin dalle prime inquadrature si percepisce che è anche un film sul paesaggio, che costituisce quasi un personaggio a sé; la steppa del titolo appunto, desolata, gelida, quasi irreale nella sua infinita solitudine, eppure portatrice di una sua poesia. Anatoly, il protagonista, è un uomo di mezza età che torna allo sperduto villaggio natale per assistere la madre morente. Nella vecchia casa c’è solo il fratello (con cui devono esserci stati ln passato degli screzi mai sanati) e lui che, tra un gesto e l’altro di pietà filiale, vive sommerso in una quantità di ricordi: le lettere di un amore adolescenziale, le foto, i disegni, gli oggetti, i manifesti dell’epoca da Stalin in poi. Tutte testimonianze di un epoca passata con la quale cerca in qualche modo di fare i conti. Il villaggio, Soumy, nell’estremo nord est del paese, è abitato solo da vecchi; i giovani evidentemente se ne sono andati, e ben prima del 24 febbraio 2022. Poi la madre muore e tutta la comunità partecipa all’organizzazione del funerale, che dura parecchi giorni. C’è la veglia, lo scavo della fossa, il corteo funebre sulla collina… C’è soprattutto la scena, lunghissima e fondamentale, del pranzo che, come accade in tutte le società rurali, viene offerto ai partecipanti alle esequie. Qui, alla luce rossa e quasi magica delle candele, gli anziani rievocano episodi delle vite passate, si commuovono, cantano una canzone dell’epoca, il cui titolo “Le albe luminose sul Dnipro” fa venire i brividi a noi di oggi. Gli attori sono gli abitanti stessi del villaggio, coi loro volti segnati dal dolore e dalla fatica. 

Siamo (e qui è il grande merito della regista) al confine tra cinema del reale e fiction, ma il passaggio quasi non si avverte. Sullo sfondo solo tragedie: la repressione staliniana, la ”grande guerra patriottica“, l’illusione sovietica presto svanita. Poi Anatoliy scolpisce la lapide, i mobili e gli attrezzi vengono divisi tra i vicini, la casa chiusa, forse per sempre. La pietosa uccisione del cagnolino adorato dalla madre (morirebbe di fame o sarebbe sbranato dai lupi, dice Anatoliy) segna la parola fine del film e certo di un’epoca. Cinema d’altri tempi, démodé forse, e che però si collega alla grande tradizione del cinema russo, senza nulla concedere all’attualità, alle mode del presente. Alla fine a Stepne è andato il Pardo d’oro per la miglior regia, forse avrebbe meritato di più…

Giovanni Martini – MCmagazine 84

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